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Fabbro “ferraio”

In passato Bisacquino era molto rinomata per la lavorazione del ferro in vari forme, tanto che possiamo parlare di una vera e propria  “civiltà del ferro”dei cui segreti i “firrara” del paese  sono stati per secoli gelosi custodi.  Sin dal 1500 le corporazioni dei fabbri con un proprio  statuto e farne parte era un prestigio; apprendiamo dalla monografia di Bisacquino del can. Lucia che anche a bisacquino intorno al 1800, si era costituita una piccola corporazione di “firrara”.

Oltre all’importanza della produzione in ferro (falci, rappe, vomeri, ferro di cavalli, inferriate, serrature etc…)la bravura del fabbro stava nella necessità delle fasi tecniche di lavorazione  (dal governo del fuoco,alla temperatura, dalla martellatura alla fusione ) che bisognava padroneggiare  per esercitare il mestiere. Le tappe attraverso cui un ragazzo era obbligato a passare per diventare mastro erano tante; si cominciava con i lavoretti umili, abbeverare il mulo del patrone, fare piccole consegne, riordinare la bottega passare gli attrezzi al mastro, per andare poi a tirare il mantice che alimentava la fiamma nella forgia, enere con la tenaglia l’oggetto in lavorazione, ed infine si accedeva al ruolo di aiuto del mastro nella produzione dei manufatti battendo la mazza e ferrando autonomamente i cavalli. In un passato non molto lontano a Bisacquino,come in tutta la Sicilia il mondo artigiano costituiva un’alternativa alla maledizione della zappa,dava la possibilità di riscattarsi socialmente. La scelta del mastro dipendeva da una programmazione dell’avvenire dei figli e dalla somma  che si poter destinare all’apertura di una bottega  allorché il periodo di apprendistato si fosse concluso. Ai sacrifici di un  padre,che per dieci anni circa vedeva immobilizzato il potenziale produttivo del figlio, doveva corrispondere da parte di questi la volontà di imparare e la sottomissione alla disciplina richiesta. I genitori consegnavano i loro figli al fabbro,come ad altri artigiani, con il permesso di scorticare”loro la pelle” se si fossero mostrati riluttanti all’apprendimento del mestiere dovevano “diventare uomini”.

L’arte che usciva dalle prime martellate sulle dita e l’attenzione prestata al lavoro del mastro, lentamente entrava. Si cominciava a frequentare la bottega in tenera età, 6/7anni nei mesi estivi solo per guardare; poi dagli 8/10 anni sempre nei mesi estivi, ma per lavorare si percepiva  qualche soldo

solo per le feste; infine chi abbandonava definitivamente gli studi faceva l’apprendista fino al 16/18 anno. L’espressione per cui “ l’arte si ruba non si insegna “ traduce con efficacia il rapporto  mastro-apprendista, i cui occhi dovevano essere svegli nell’acquisire le giuste competenze necessarie per l’esercizio del mestiere. Purtroppo oggi molte botteghe  (“putie”) sono scomparse e le poche rimaste lamentano lo scarso interesse dei giovani di apprendere questo antico e faticoso  mestiere, perché poco remunerativo. Coltelli e falci sono l’orgoglio dell’artigianato bisacquinese;attraverso il garbo che si dava si poteva risalire all’artigiano che li aveva fatti. Per  esempio ai migliori produttori di falci i Parrino diedero nel 1940 l’esclusiva per il tipo di falce detta “tedesca”che aveva un garbo particolare. L’attività era stata avviata dal nonno  (nato nel 1830), continuò il padre  (nato nel 1866)con i suoi fratelli ed infine lui  (nato 1908). Questi due fratelli non essendo sposati e non avendo figli non anno potuto tramandare il mestiere a nessuno, la bravura del padre e degli zii di Gregorio era tanto che lavoravano con mazza e martello non facevano”rumore “ era come se stessero suonando tutti accordati senza stonare.

Da piccolo dice Giacomo Raia  (fabbro)che andava a guardare e ascoltare i Parrino ed “erano una musica”. Nella loro bottega piccolissima, ci sono sempre stati pochi attrezzi ,quelli indispensabili: l’incudine , la forgia (cat. n°74) e il mantice  (cat. n°73), una serie di mazze e tenaglie a punta piana  e curva  (cat. n*75 al n°83) e tanta voglia di lavorare. A proposito del mantice, questo era il frutto del lavoro del ciabattino che tagliava e cuciva il cuoio della forma che poi doveva assumere il mantice (triangolare o arrotondato );del falegname che costruiva l’impalcatura dove poi era ancorato il mantice ;e del fabbro ferraio che forgiava i cerchi in ferro, i bulloni e tutto ciò che serviva per realizzare quello strumento che poi lui stesso adoperava. Nel caso in cui il cuoio si spaccava era lo stesso fabbro che provvedeva a “cunzarilo”, riparava i buchi con qualche “pezza “.

La specialità dei Parrino erano le falci, ma venivano realizzate anche “ runche” roncola (cat. n °109), “rincigghi” (falcetto  cat. n °112 e 115), “rappuna “e asciuga.

La lavorazione delle falci seppure faticosa era anche molto redditizia. Diversi tipi ne sono esposte nella sezione riservata al fabbro ferraio nel museo  (cat. dal n° 219 al n° 226). Le falci si ottenevano dalla utilizzazione dei ferri di mulo o di cavallo con rampino forgiati insieme a pezzi di acciaio.

In media con un  fero di cavallo si poteva fare una falce e mezza. I ferri si tagliavano si pesavano fino a raggiungere 200 gr.   e si  sistemavano  ( si appustavano’ ncapo na’ tavolidda”)  tutto questo veniva fatto ogni sera dopo aver terminato il lavoro della giornata in modo che l’indomani mattino alle 4.00 in cui si iniziava a lavorare, tutto era pronto.

Prima del periodo fascista si iniziava così presto a lavorare perchè la richiesta di falci era notevole,si preparavano dalle 45 alle 50 falci grezze al giorno; con l’avvento poi del fascismo una legge obbligava i fabbri e tutti gli artigiani ad iniziare dopo che sorgeva il giorno, cioè alle 7:00fino alle 14:00 senza interruzione, tanto che si riprendeva alle 14:00 senza interruzione, tanto che si diceva “ quanno si facianu faci un si pigghiava mancu’ sciato “ si riprendeva alle 15:00 per finire alle 19:00. dopo aver appostato le falci, si provvedeva all’”aggarbatina” a seconda dello stile propri del paese a cui erano destinate. Per esempio Bisacquino ed tutta la provincia di Palermo c’erano le falci  “ca gamma gritta”cioè con arcatura molto aperta, che corrispondeva a un modello numerato due o tre; a Trapani e provincia la curvatura era più chiusa e corrispondeva al modello numerato zero; nella provincia di Caltanisetta c’erano le falci a mezza luna corrispondenti al modello numerato quattro. Dopo l’aggarbatina si susseguono una serie di fasi per cui le falci si “rifucavano” si  “addizzavano”e infine si “acccubbavano”, poi con il martello e lo scalpello si intagliavano i denti ed a questo punto erano pronte per la tempera . passata anche questa fase venivano rimesse per l’ultima volta alla forgia per fare entrare il manico della falce nel manico di legno di pioppo fatto dai falegnami locali. Un bravo falegname al quale Gregorio  Parrino commissionava i manici degli anni 1927-1928 era il padre del vescovo Petraia.

Una falce completa di manico di legno costava all’incirca 100 lire in quel periodo. Una volta ultimate le falci ci avvolgevano nella carta a gruppi di dieci e si conservavano nei magazzini e quindi poi c’erano le fiere paesane, si partiva con 8-10 carretti carichi di “ zimmila “ pieni di falci, per andare a venderle. Una fiera molto redditizia era quella di Salemi, in cui rimanendo per una settimana si arrivavano a vendere 6.000- 7.000 falci; c’erano poi quella di Gibbellina , Caltanissetta, Marsala, Trapani, Enna, bisacquino  e paesi limitrofi, fino ad arrivare a Nicosia. Per pochi quantitativi si andava direttamente in bottega a comprare le falci; inoltre c’era la possibilità di farsi personalizzare la falce, che poteva durare diversi anni  in quanto i contadini periodicamente ritornavano dal fabbro per farle  “ntagghiare “ cioè per ripassare il taglio che il duro lavoro dei campi  aveva “ sfardato ”. questo ritorno in bottega per ripassare la falce o per ferrare il mulo o per riacciaiare il vomere spesso era un momento di nostalgia da parte di chi un tempo era stato apprendista presso il mastro. Altre botteghe di mastri oltre ai Parrino erano: in via lo Jacono: Aurelio, Taddeo e Vincenzo Raia. – in via Bona : Antonino e Salvatore Bacile. – in via Bona: Alberto Caronna .  I Bacile continuando il mestiere del padre e del nonno ferravano cavalli e ogni tanto costruivano coltelli col manico di corno, una specializzazione  interna all’attività dei fabbri.  

 

 

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