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Falegname

Nella civiltà contadina , il legno era il principale materiale d’uso, una risorsa vitale nei processi di lavorazione, un bene essenziale ed un vero e proprio capitale per l’economia dei piccoli laboratori artigiani. Lignei erano gli oggetti che costituivano l’universo materiale del sistema di vita tradizionale. A bisacquino, alla lavorazione di questa materia prima, era collegata l’attività di un gran numero di botteghe artigiane quasi tutte concentrate nella zona dell’Acquanova.

I falegnami bisacquinese  più rinomati erano: - “mastro Sciaverio”   Cataldo – “Mastro Gnazziddo “ Costa – “Mastro Jachino”Costa – “Mastro Pitrino”Palisi –“ Mastro Pippino “ Guarino, “Mastro Pippino” Naro  e suo cognato “Pippino” Catanese,- “ Mastro Totò “ Capra , “mastro Bennardo “ Sardigna. Ogni prestazione d’opera del falegname cominciava sempre dalla personale ricerca del materiale prima: nei mesi di gennaio e febbraio partiva per i boschi e abbatteva gli alberi col favore del vento di tramontana ma in presenza dello scirocco per evitare il rischio di una precoce tarlatura del legname. I tronchi prima di essere abbattuti venivano “ascati”con l’ascia  (“asciuneddu” cat. n°262 )provvista di lama a denti triangolari. Trasportato in bottega il tronco veniva lasciato a stagionare per il tempo necessario a seconda del pezzo da realizzare potevano occorrere anche dieci anni. L’attrezzatura dell’artigiano, prima dei recenti progressi di meccanizzazione era ridotta all’essenziale; seghe, morse, pialle; lo strumento  che però si imponeva sugli altri per la grande semplicità, ma allo stesso tempo per la complessità delle operazioni che consentiva di compiere, era il banco da lavoro (“vancu.” n°253 )costituito da un grosso tavolone di legno lungo circa due metri.

Ottenuta la necessaria stagionatura,il tronco era pronto per essere lavorato,tramite le morse il ceppo di legno veniva bloccato sul banco da lavoro e cominciano le varie fasi di trasformazione.

Le morse (cat. dal n°265 al n°270) erano di diversa grandezza e venivano costruite direttamente dai falegnami stessi, per realizzare il vermiglione centrale bisognava determinare la distanza tra un solco ed un altro e con lo scarpello; si intagliavano i vari giri che permettevano alle ganasce di avvicinarsi al pezzo immobilizzandolo; in questo modo si facilitava la lavorazione del tronco. Grazie a delle seghe speciali a due manici si poteva tagliare i tronchi anche longitudinalmente,poi si scorticava il legno privandolo della corteccia per mezzo del “raspuglio” (cat.. n°302); seguivano le fasi di tagliatura e di levigatura :la prima effettuata tramite seghe, segacci,e grattugi,la seconda con le pialle ( “chianozzi, chianoni, (cat. n°286-287). L’universo delle attività dipendenti dalla lavorazione del legno, si segmentava in ulteriori articolazioni e professionali.

Il fenomeno della specializzazione dei diversi ordini di mestieri più evidenti nei contesti urbani, erano invece fortemente ridimensionato nelle piccole comunità rurali come bisacquino dove lo stesso artigiano finiva con l’esercitare un largo ventaglio di attività connesse alla produzione di una vasta gamma di manufatti di legno sicché al falegname si potevano commissionare sia prodotti semplici destinati all’agricoltura sia pregiati mobili.

Un grande valore socio-culturale era attribuito dalla tradizione artigiana alla formazione della manod’opera . il tirocinio presso la bottega di un “Mastro “ che cominciava in età giovanissima costituiva fino a qualche anno fa una delle più sicure e ricorrenti forme di accesso al mercato del lavoro. Il momento dell’educazione non era separabile da quello della produzione, veniva basato direttamente dalla pratica operativa guidata e controllata dall’intervento del falegname.

Un artigiano esperto era in grado di identificare la qualità di ciascuno pezzo di legno, particolarmente spiccata era la loro sensibilità  nel riconoscere dai profumi della resina e della geometria della venatura il grado di stagionatura di ogni tronco, lo studio della caratteristiche naturali faceva parte del patrimonio di conoscenze che l’artigiano aveva appreso da giovane nella bottega del “ mastro”. L’uso esperto e controllato dell’ascia era un importante prova che abilitava l’apprendista ad una certa autonomia d’azione. A coloro i quali erano ancora agli inizi dell’attività si affidava solitamente il compito di preparare i bastoni delle zappe. I manici delle falci, prodotte in quantità dai fabbri bisacquinese, richiedevano una lavorazione più raffinata, quindi solitamente

venivano lavorati al tornio a pedale (cat. n° 254), costituito da un banco fisso su cui vengono montate le diverse parti mobili e fisse della macchina; la testa motrice del banco è destinata a serrare il pezzo e ad imprimergli il senso rotatorio. I principali pezzi del tornio sono: la “ verrina “(cat. n° 258), nella cui parte girava la cinghia che permetteva di azionare la macchina mentre con la punta si infilzava il legno da tornire; la puleggia (cat n° 260), una ruota girevole attorno alla quale scorre la cinghia; infine la sgorbia (“ sgurghia” cat. n° 255) molto simile ad uno scarpello usato per lavorare il legno al torchio e per toglier la parte marcia di un tronco.

Gli interni delle botteghe dei falegnami locali erano semplici e molto simili fra di loro: piccole stanzette con le pareti ingiallite dal tempo e dalla polvere di segatura, corredate da banchi di lavoro  seghe sparse qua e la; tutti gli attrezzi venivano scrupolosamente ordinate in ogni specifico armadio (“rasttigghera” cat. n° 252) un grosso mobile di legno con tanti piccoli supporti e insenature costruiti dai falegnami stessi per sistemarvi gli arnesi che utilizzavano quotidianamente nel loro lavoro. Tra quelli più caratteristiche ricordiamo:il grattugio (“sirraculo a mano”  cat, n° 277), composto da un piccola sega di forma stretta usata per eseguire tagli curvi; la graffa (“graffio” cat, n° 297)un particolare attrezzo che serve a misurare, alle estremità è arricchita da uno o più chiodi intaccano la superficie fornendo all’artigiano la linea o linee rette che poi vanno segate, il capo serrato(“ sguarretta “ cat. n° 275 è una particolare squadretta, si distingue dalle solite che hanno una angolazione di 90° perché avendo i due bracci mobili si dava la possibilità all’artigiano di determinare l’angolo voluto. Le sponderuole  (“ spinnalori “o “gole” cat. n° 281formate da una tavoletta di legno contro cui era conficcata una lama che attraversava tutto il pezzo ,serviva a dare il disegno alle cornici, ogni lametta aveva una forma diversa quindi il disegno poteva venire a- mezza canna- (“ schiacciata “ cat, n° 284 ) o a -doppia canna. La colla utilizzata dai falegnami veniva procurata dal grasso degli animali e dalle ossa di mucche e di cavallo; veniva comprata nelle ferramenta ( ad esempio quelle di mastro Silvio Bacile ), e veniva sciolta nell’acqua a bagnomaria in una apposita pentola di rame (“ pignateddu” cat. n° 303 ), in questo modo si otteneva una pasta di colore miele molto appiccicosa. L’attrezzatura e le tecniche di lavorazione dei falegnami si sono quasi completamente meccanizzate , facilitando senza dubbio il lavoro manuale e riducendo i tempi ed i costi di  produzione.

Nei boschi bisacquinese il legname duro e resistente idoneo a fornire un buon materiale da costruzione, non mancava,  quindi i falegnami non avevano problemi di approvvigionamento;esso veniva principalmente impiegato per la costruzione delle travi che sostenevano il tetto, per le travi per cui si appoggiava il solai,per le porte etc.

Altre frequenti commissioni erano la costruzione e riparazione di oggetti di legno che costituivano l’apparato strumentale di cui il contadino aveva bisogno: pale, tridenti e aratri per la cui realizzazione impiegavano dai tre o quattro giorni, occorreva un lavoro di precisione in quanto doveva risultare ben equilibrato nella forma e nelle misure , in modo da distribuire il peso sugli omeri dei due animali. Di ogni ceppo e di ogni piccolo pezzo di legno, veniva fatto un uso attento e previdente per evitare sprechi e per sfruttare al massimo tutta la quantità del materiale di cui poteva disporre, quello che non era più recuperabile alla lavorazione, veniva utilizzato come combustibile per alimentare il focolare delle mura domestiche o veniva ceduto al fabbro per la fornace.

Il suo rapporto con  la materia da trasformare era fondato sulle competenze direttamente acquisite nel vivo delle quotidiane esperienze e sul sicuro dominio delle tecniche di lavoro.

Per il contesto sociale ed economico bisacquinese, quella del falegname era senza dubbio una figura di grande prestigio per una comunità che traeva il suo sostentamento dalla terra.  

     

 

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