Il calzolaio
Nella Sicilia contadina il mestiere di calzolaio non è stata mai tenuta in considerazione. Ad esso venivano avviati i ragazzi “ allontanati “ da altri mastri o quelli che una malformazione li rendeva inadatti al lavoro nei campi. Occorre dire, inoltre, che l’apertura di una bottega di calzolaio non richiedeva capitali consistenti, né spazzi particolarmente strutturati.
A dispetto di questa mancata valorizzazione, resa efficacemente dal termine “sarparu”, qualità e varietà della produzione facevano del mestiere di calzolaio un momento essenziale della cultura contadina, contrariamente da oggi il cui intervento è limitato alle riparazioni; tantè che ideava e realizzava interamente tanti tipi di scarpe:dai più raffinati fino ad arrivare agli “ Scarpuna ch ‘i tacci”, le insostituibili e industriabili chiodati, dei nostri contadini, scambiate spesso,secondo le epoche, contro un quantitativo di frumento. Questo scambio alimentari di beni non esaudiva la trama di relazioni che connetteva al lavoro dei contadini. Infatti il calzolaio ricava lo spago dal lino, utilizzandone le parti migliori;”i ziti” (cat. n° 370) che guidano lo spago nei buchi,dalle setole del maiale, “u’ bbussettu”per lucidare i tacchi già incerati, dal legno di bosso.
La limitatezza dell’apparato strumentale mette in maggior risalto le abilità manuali. Il suo declino è perciò il suo emblematico di uno degli aspetti più preoccupanti del nostro tempo; di non saper fare nulla con le proprie mani. A Bisacquino l’arte di “fare” le scarpe era particolarmente fiorente; infatti quasi ogni quartiere aveva almeno due calzolai. Nel corso Umberto c’erano: Iachino Mannisi, Totò Plaia , Turiddu L’Ursu, Pasquale Bacile (alcuni di questi sono soprannomi) ; in XXIV Maggio : Pitrino Perrone e Fulippu Spizzutato; in via Carmine Turiddu Filippine e Benedetto Ciumba; nel corso Triona : due fratelli Firetti; ai Pileri Tano Carnilivari; a Santa Lucia Calma e Antonino Mansella; a Santo Vito Liddro Noto; ai Cappuccini :Peppe Vetrano, Saverio Prezioso e Iachino , Manniti;a San Francesco di Assise: Totò Canighiaro, Totò Monastrero; in Contrada Menta: Pippinu Pedi Torti.
La bottega del calzolaio presentava un’altra caratteristica. Come quella del Barbiere era un luogo di socialità Maschile,dove accadeva frequentemente che i contadini, si riunissero a commentare i fatti del paese, ad organizzare le loro proteste. Per fare le scarpe, occorreva prendere le misure. I calzolai adottavano un sistema metrico specifico, 90 cm in lungo di 60. le cui unità danno le numerazioni delle calzature. La lunghezza del piede viene presa dal tallone alla punta seguendone la parte intera, quindi se ne misura la circonferenza che va dall’incavatura posta in corrispondenza del fiosso(“a fàmicia “) fino al dorso ( “a munta “) infine la pianta ( “a chianta du pedi” ).
Per le calzature alte si tiene conto della larghezza della gamba. Le misure devono essere prese con cura, poiché da esse dipende la scelta della forma di legno (“ furma “) sulla quale monta la scarpa , quindi del modello di carta che guiderà il taglio della pelle. Le forme sono sempre accoppiate e di diversa struttura a secondo il tipo di scarpe e del sesso del committente. Sono sempre due blocchi sovrapposti e uniti da viti:quello equivalente alla pianta del piede o a furma vera e propria,la parte superiore mobile,il dorso prende il nome di cugnu
Entrambi i pezzi sono attraversati da fori per consentire l’estrazione, col (“ tirafurmi” ), allorché la scarpa sia stata realizzata. Sul cuneo possono essere inchiodate delle lingue di bacchetta “àusi”per correggere e soprattutto negli scarponi, altezza della monta. Altre forme i “gammali “esistevano gli stivali. A questo punto si tagliano la pelle che compongono la parte superiore della scarpa “ a tumaia. Ai due pezzi principali combacianti, “ quartino e pigna”di cui l’artigiano possiede il modello in cartone, si aggiungono mantice e striscia.
Il mantice consiste in un ritagli o lungo e flessibile , cucito sotto l’allacciatura per agevolare il movimento di apertura e chiusura, mentre la striscia viene cucita ad anello nella parte posteriore cosicché tirando la scarpa si possa calzare meglio.
La pelle viene tagliata con un trincetto di dimensioni ridotte e lama particolarmente affilata (“un trincetto di taglio”) sopra “u tavulune “ tenuto sulle gambe, seguendo i contorni del modello.
L’impugnatura e quasi sempre foderata di cuoio. Con il trincetto normale si tagliano invece le strisce inserite per rinforzare la scarpa, in corrispondenza del quarto anteriore del tallone e della base “cappelletti”, “pizzetti”, “girichiani “ . Col trincetto si incide pure la tramezza “a chiantedda“.
A chiatedda viene perfilata sulla forma alla quale verrà fissata con la “siminsedda” (chiodi dalla testa tonda ) dopo averle tenute a bagno per qualche ora. Prima che sia montata la tomaia viene cucita dalla “macchinista “, lo stesso artigiano o la moglie. Eventuali cuciture nelle parti interne si facevano con gli aghi. Allorché sia stata lucidata (una volta col nero fumo delle pentole e le sia stato applicato il numero con l’apposito punzone. La scarpa era pronta per la consegna. Lo strumento principale per le riparazioni, che assorbivano anche nel passato una gran parte di tempo lavorativo del Calzolaio, è “a furma i ferru “. Un utensile equivalente è “u palu di ferru “, utilizzato per la riparazione degli stivali. Nel passato, oltre alle riparazioni vere e proprie, un tipo di intervento assai richiesto era l’allargamento delle scarpe, operazione effettuata da una apposita forma “a furma a viti”.
Era tradizione degli artigiani di molti paesi, tra cui Bisacquino, di incollare sulle pareti delle botteghe i cartelloni pubblicitari via utilizzati dal locale cinematografo. Ce né sono alcuni ingialliti dal tempo nelle botteghe di un anziano ciabattino qui a Bisacquino, che ha confessato di non stare lì per un bisogno economico; sedersi a lavorare o “vanchiteddu”, costituiva per lui l’unica possibile e razionale risposta alla crisi di identità la nostra società.